Quando ho messo la lente a sinistra e recuperato di colpo una gran parte del campo visivo, gli oggetti che avevo maneggiato fino ad un secondo prima acquisirono d'improvviso spessore, colore, definizione. In questi giorni che mi avvicinano al disvelo mi lascio interrogare sempre più da questo velo, come e cosa cerca di farmi vedere nel togliermi la vista, il senso prospettico dei miei gesti, io che con gli occhi ci parlo in abbondanza.
So di essere generosa. Do tutto quello che sono, quello che ho è solo una piccola parte materiale.
Impedirmi di comunicare, di scambiare, offrire equivale a mutilarmi.
Mi ritorna in mente che alle superiori dissi ai miei compagni di classe di essere in grado di capire cosa stessero pensando guardandoli negli occhi.
In realtà mi si apriva una finestra mentale e visualizzavo la radice del pensiero come una foto molto colorata. Qualcuno sondava con curiosità, uno in particolare, lo stronzo innamorato della più bella che non so che fine abbia fatto, lo stesso cretino che salutava tutte col bacio sulla guancia tranne me, sgranò gli occhi come se stesse al pronto soccorso per farsi togliere una scheggia chiedendo:"Cosa sto pensando?"
"Stai pensando, vediamo cosa mi dice così poi la piglio per il culo"
La sua istantanea espressione successiva fu chiarissima, senza sottotitoli "Cazzo m'ha sgamato".
Occhi bassi e avanti con la giornata.
L'esperienza fu dolorosa ed umiliante. Non riuscivo a capire come mai se ti passo il compito in classe la generosità è benvenuta, se invece ti passo qualcosa che leggo, che non ti offre sicurezza ma altri interrogativi, ecco, questo deve essere deriso, avvilito, bendato come una mummia e sepolto.
Cercavo di comprendere con il cuore osservando come la generosità veniva vissuta e declinata nel mio mondo. Il primo grande esempio (si impara dagli esempi non dalle spiegazioni verbali) era costituito da una generosità che generava codipendenza, in cui si andava a far del bene, ed il beneficato era tutto tranne uno che esulta "che figata", bensì doveva riconoscere l'autorità di chi offriva come un suddito molto poco felice.
La generosità dell'oratorio era incardinata sull'annullamento di sè, almeno per la mia persona, per far passare una mia idea dovevo suggerirla a qualcuno che poi veniva promosso per l'atto di genialità. Con il cuore libero avrei distribuito interrogativi, dubbi, mondi diversi, quindi dato che so scrivere DEVO cedere il mio testo ad altri che lo leggano o lo recitino, non si sa mai, arrivasse anche la forza dell'intonazione. Generare offrendo, la vita è una offerta del corpo affinché lo spirito possa implementare le sue esperienze. Ritrovarsi per gran parte del tempo in cui non posso vedere dove seminare i doni che mi sono stati affidati ma devo ridurre il dono, velarlo, bendarlo, adattarlo per non offendere altri cechi che si sono adattati, impacchettarlo come il grembiule della scuola che omologa tutti.
I miei doni sono originali, scomposti, ballano scoordinati, disegnano picassiano, e per quanto tanti ed offerti liberamente, devono essere castrati, troppo vitali per i morti.
Gli altri al primo posto. Gli altri validano la tua esistenza. Gli altri sono felici se metti la macchina, la casa o altro a disposizione, sono meno felici se, vedendo i colori dell'aura gli anticipo qualcosa che per me è lampante e che il classico "te lo avevo detto" me lo evito per non subire l'altra derisione venendo attaccata perché troppo pedante.
Quando altri ti offrono qualcosa, fosse pure merda fumante, DEVO ringraziare.
Davanti all'ennesimo dottore dei miei mali fisici o spirituali che mi da la sua prescrizione, NON posso mandarlo in proscrizione e fare a meno del rimedio o della sentenza su quel che sono e che sento ma, dato che è un gesto di generosità altrui, lo DEVO accogliere, usare, ringraziare, fare mio. Prendere a piene mani la generosità altrui anche se è una sega elettrica in pieno movimento senza urlare "mi stai ferendo" perché subito dopo mi viene intimato "sei tu che ti lasci ferire" e allora vaffanculo!
Ora, a me ste leggi che si adattano a chi le fa scatena la genuinità della mia rabbia.
Perché se tu mi offri la tua sentenza mi deve andare bene e se lo faccio io ti sto giudicando?
Perché la tua merda profuma sempre e comunque qualsiasi cosa tu mangi?
Perché se precedo i tuoi bisogni per intuizione ti offendi sentendoti insultato?
Perché se arrivo ad una evoluzione per cui privo alcuni ambiti di un si sempre scattante NON lo vedi come una conquista ma inizi ad aggredirmi con le tue compentenze?
Perché quando ti metto davanti ad una ingiustizia palese, mi accusi d'essere esagerata?
Perché ti tieni cara l'acqua sporca e preferisci buttarmi via?
Perché...non so perché ed il modo in cui esprimo la mia generosità sono fatti miei.
Come si dice davanti ad un banchetto o del cibo offerto:
Chi non accetta non merita e...A taula è stisa, cu non mancia peddi a spisa.
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